Franco Costabile
FRANCO COSTABILE nasce il 27 agosto 1924 a Sambiase (CZ). Pochi mesi dopo la sua nascita, il padre abbandona la famiglia trasferendosi in Tunisia per dedicarsi all’insegnamento, creando nel figlio un senso di doloroso vuoto controbilanciato da un legame smisurato con la madre, e con la Calabria, la Grande Madre che lo incatena in un amore simbiotico e ambivalente, tra fuga e rivalsa, tra mitizzazione e repulsione. Al termine degli studi al Liceo Classico di Nicastro, nel 1943 Costabile si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Messina e collabora a «L’Italia libera» del Partito d’Azione, scrive su «Calabria, terra dimenticata» e dà vita al periodico «La via». Nel ‘46, spinto dal desiderio di crescita e riconoscimento, lascia Sambiase per trasferirsi a Roma e iscriversi alla Facoltà di Lettere. È allievo prediletto del poeta Giuseppe Ungaretti, allora docente di Letteratura Contemporanea: i due sono l’uno per l’altro il figlio e il padre persi. Dopo la laurea in Lettere, fino al ’61, insegna Italiano e Storia, sempre precario e pendolare, in vari licei e istituti tecnici, dedicandosi parallelamente alla stesura di un’enciclopedia cattolica e collaborando con varie riviste, solo due prettamente letterarie («La fiera letteraria» e «Letteratura»), le altre d’impronta civile («Tempo presente», «Botteghe oscure», «Inventario», «L’Europa letteraria»), in cui pubblica le prime poesie, che invia anche a Elio Vittorini per un giudizio, visti i loro rapporti epistolari. Ben inserito nell’ambiente letterario romano, stringe legami con i poeti contemporanei, artisti e critici letterari. Nel 1950 la sua prima raccolta Via degli ulivi riscuote successo. Nel 1953 sposa l’ex allieva Mariuccia Ormau, dal cui matrimonio nascono due figlie, ma ben presto la moglie si trasferisce a Milano per insegnare all’Accademia di Brera: è la fine del suo sogno di un nido famigliare ricomposto. Come quasi per tuffarcisi dentro e amplificarlo, lega il suo dolore individuale al malessere sociale, al dolore di un popolo: nasce la raccolta La rosa nel bicchiere, edita da Canesi nel 1961, considerata dalla critica il suo capolavoro, segnalata al Premio Letterario Viareggio e letta in RAI da Valeria Moriconi. Nello stesso anno, il padre smette di rispondere alle sue lettere, spezzando quel filo sottile tramite cui Costabile aveva sempre cercato di mantenere un contatto. E nel 1964, dopo lunga malattia, muore la madre: ineluttabile, il mal di vivere di Costabile adombrerà ogni cosa. Non serve a risollevarlo, in quello stesso anno, il grande successo della lirica Il canto dei nuovi emigranti, vincitrice del Premio Letterario Frascati, interpretata da Achille Millo: un poema sul dolore di una terra, la Calabria dai problemi incurabili, da lui abbondonata, che in cuor suo egli accomuna al destino di sua madre. Il 14 aprile 1965, Franco Costabile si toglie la vita. E Giuseppe Ungaretti scrive per lui questi versi: “Con questo cuore troppo cantastorie” dicevi ponendo una rosa nel bicchiere e la rosa s’è spenta poco a poco come il tuo cuore, si è spenta per cantare una storia tragica per sempre
Il canto dei nuovi emigranti
Ce ne andiamo.
Ce ne andiamo via.
Dal torrente Aron
Dalla pianura di Simeri.
Ce ne andiamo
con dieci centimetri
di terra secca sotto le scarpe
con mani dure con rabbia con niente.
Vigna vigna
fiumare fiumare
Doppiando capo Schiavonea.
Ce ne andiamo
dai campi d’erba
tra il grido
delle quaglie e i bastioni.
Dai fichi
più maledetti
a limite
con l’autunno e con l’Italia.
Dai paesi
più vecchi più stanchi
in cima
al levante delle disgrazie.
Cropani
Longobucco
Cerchiara Polistena
Diamante
Nao
Ionadi Cessaniti
Mammola
Filandari…
Tufi.
Calcarei
immobili
massi eterni
sotto pena di scomunica.
Ce ne andiamo
rompendo Petrace
con l’ultima dinamite.
Senza
sentire più
il nome Calabria
il nome disperazione.
Troppo tempo
siamo stati nei monti
con un trombone fra le gambe.
Adesso
ce ne scendiamo
muti per le scorciatoie.
Dai Conflenti
dalle Pietre Nere da Ardore.
Dal sole di Cutro
pazzo sulla pianura
dalla sua notte, brace di uccelli.
Troppo tempo
a gridarci nella bettola
il sette di spade
a buttare il re e l’asso.
Troppo tempo
a raccontarci storie
chiamando onore una coltellata
e disgrazia non avere padrone.
Troppo
troppo tempo
a restarcene zitti
quando bisognava parlare, basta.
Noi
vivi
e battezzati
dannati.
Noi
violenti
sanguinari
con l’accetta
conficcata
nella scorza
dei mesi degli anni.
Noi
morti
ce ne andiamo
in piedi
sulla carretta.
Avanzano le ruote
cantano i sonagli verso i confini.
Via!
Via
dai feudi
dagli stivali dai cani
dai larghi mantelli.
Ussahè…
Via
Via!
Via
dai baroni.
I Lucifero
I conti Capialbi
I Sòlima gli Spada
I Ruffo
I Gallucci.
Usciamo
dai bassi terranei
dal sudario
dei loro trappeti
dai parmenti
della vendemmia
profondi
a lume di candela
e senza respirazione.
Via
dai Pretori
dalla Polizia
dagli uomini d’onore.
Non chiamateci
non richiamateci.
È scritto
nei comprensori
È scritto
nei fossi nei canali
È scritto
in centomila rettangoli
alto
su due pali
Cassa del Mezzogiorno
ma io non so
che cosa
si stia costruendo
se la notte
o il giorno.
Ci sono raffiche
su vecchie facciate
che nessuno leva: l’occhio
del Mitra
è più preciso
del filo a piombo della Rinascita.
Addio,
terra.
Terra mia
lunga
silenziosa.
Un nome
non lo ebbe
la gioventù
non stanchiamoci adesso
che ci chiamano col proprio cognome.
Noi
Noi
ce ne siamo
già andati.
Dai Catoi
dagli sterchi orizzonti.
Da Seminara
dalle civette di Cropalati.
Dai figli
appena nati
inchiodati nella madia
calati
dalle frane
dall’Aspromonte
dei nostri pensieri.
Spegnete
le lampadine della piazza.
Scordiamoci
delle scappellate
dei sorrisi
dei nomi segnati
e pronunciati per trentasei ore.
Cassiani
Cassiani
Cassiani
Cassiani
Foderaro Galati
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi
Cassiani
Cassiani
La croce
sulla croce,
diceva l’arciprete.
E una croce
sulla croce,
segnavano le donne.
andavano
e venivano.
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi
È stato
sempre silenzio.
Silenzio
duro
della Sila
delle sue nevicate a lutto.
È stato
il pane a credenza
portato
sotto lo scialle
all’altezza del cuore.
Sono stati
i nostri occhi stanchi
guardando
le finestre illuminate
della prefettura.
Carabinieri,
fermatevi.
Guardate,
giratevi
non c’è nemmeno un cane.
Siamo
tutti lontani
latitanti.
Fermatevi.
Restano
gli zapponi
dietro la porta,
i cieli,
i vigneti.
La pietra
di sale sulla tavola.
I vecchi
che non si muovono
dalla sedia,
soli
con la peronospera nei polmoni.
Le capre
la voce lunga
degli ultimi maiali scannati.
L’argento
a forma di cuore, nella chiesa.
Le ragnatele
dietro i vetri, le madonne. La ragnatela del Carmine
la ragnatela di Portosalvo
la ragnatela della Quercia.
Restano le donne
consumate da nove a nove mesi
con le macchie
della denutrizione
della fame.
Le addolorate
Le pietà di tutti gli ulivi.
Lavando
rattoppando
cucinando su due mattoni
raccogliendo
spine e cicoria.
Cancellateci
dall’esattoria.
Dai municipi
dai registri
dai calamai
della nascita.
Levateci
Scioglieteci
dai limoni
dai salti
del pescespada.
Allontanateci
da Palmi e da Gioia.
Noi
vivi
Noi
morti
presi e impiccati
cento volte
ce ne siamo già andati
staccandosi dai rami
dai manifesti della repubblica.
Di notte
come lupi
come contrabbandieri
come ladri.
Senza un’idea dei giorni
delle ciminiere degli altiforni.
Siamo
in 700 mila
su appena due milioni.
Siamo
i marciapiedi
più affollati.
Siamo
i treni più lunghi.
Siamo
le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel.
Siamo
il disonore
la vergogna dei governi.
Il Tronco
di quercia bruciata
il monumento al Minatore Ignoto.
Siamo
l’odore
di cipolla
che rinnova
le viscere d’Europa.
Siamo
un’altra volta
la fantasia
il 1° giorno di scuola
senza matita
senza quaderno
senza la camicia nuova.
Toglieteci
dalle galere.
Non ubriacateci.
Liberateci
dai coltelli di Gizzeria
dal sangue dei portoni.
Non chiamateci
da Scilla
con la leggenda del sole
del cielo
e del mare.
Siamo
bene legati
a una vita
a una catena di montaggio
degli dei.
Milioni di macchine
escono targate Magna Grecia.
Noi siamo
le giacche appese
nelle baracche nei pollai d’Europa.
Addio
terra.
Salutiamoci,
è ora.